Gli sviluppatori non gradiscono le eccezioni del “30%” richiesto da Apple

La fee del 30% richiesta da Apple per gli acquisti in-app è ormai al centro di tante polemiche provenienti da sviluppatori di tutto il mondo. Le ultime vicende tra Epic Games e l’azienda di Cupertino hanno reso questo argomento di pubblico dominio, con gli utenti che sono divisi tra chi dà ragione ad Apple e chi alle software house protagoniste. E poi c’è chi mette l’accento sulle “eccezioni” presenti su App Store?

epic games

Apple ha più volte detto di trattare tutte le app allo stesso modo, per questo non è possibile consentire ad Epic Games di vendere direttamente contenuti aggiuntivi in-app o ad altre software house di ottenere commissioni più basse.

In realtà, secondo alcuni critici le eccezioni su App Store esistono e sono iniziate quando Apple si si è resa conto che c’erano alcune app come Netflix di cui aveva disperatamente bisogno su App Store. Apple ha quindi creato una vera e propria regola a parte per le cosiddette app “Reader“.

Come spiega Apple, le app Reader sono quelle app che consentono agli utenti di accedere a contenuti e abbonamenti acquistati in precedenza, in particolare per quei servizi che vendono  riviste, giornali, libri, audio, musica, video, accesso a database professionali, VOIP, cloud storage o servizi approvati. Pertanto, i clienti devono avere la possibilità di acquistare l’accesso alle funzionalità di queste app utilizzando un acquisto in-app. In pratica, queste app possono vendere abbonamenti e contenuti a clienti esterni all’app senza dover offrire un acquisto in-app corrispondente, cosa che la maggior parte degli sviluppatori non può fare.

A luglio si è anche scoperto che Amazon Prime Video paga solo il 15% di commissioni su App Store, a seguito di un accordo tra Jeff Bezos e Eddy Cue per convincere l’azienda a portare Prime Video su iOS. Amazon può anche vendere ebook sul proprio sito web che possono poi essere letti nell’app Kindle su iPhone e iPad, sempre con l’eccezione delle app “reader”.

La crisi COVID-19 ha poi evidenziato un’altra interessante differenza nel modo in cui Apple tratta i prodotti fisici e quelli digitali. Le aziende che ad esempio vendevano tramite app lezioni di fitness eseguite poi nelle proprie palestre non dovevano pagare la commissione ad Apple. Ma quando le stesse aziende sono state costrette a passare alle lezioni online, Apple ha considerato quei prodotti come digitali e quindi soggetti alla sua commissione del 30%.

Ancora, Uber non paga il 30% ad Apple quando le persone usano l’app per prenotare una corsa. Anche qui ci sono dubbi: perché non considerare quello di Uber un prodotto digitale? Tra l’altro, la stessa Uber insiste sul fatto che non è una compagnia di taxi, ma piuttosto un’azienda IT che offre un servizio online per mettere in collegamento autisti e clienti.

Apple può però giustificare questa eccezione con le sue linee guida:

  • 3.1.5 (a) Beni e servizi al di fuori dell’app: se la tua app consente alle persone di acquistare beni o servizi che verranno consumati al di fuori dell’app, devi utilizzare metodi di acquisto diversi dall’acquisto in-app per riscuotere tali pagamenti, come Apple Pay o immissione con carta di credito tradizionale.

Un’altra anomalia è la pubblicità online. Tantissime aziende come Facebook consentono agli utenti di acquistare annunci pubblicitari direttamente in-app, ma anche  in questo caso Apple non prende alcuna percentuale. E, per definizione, gli annunci online sono prodotti digitali.

I più critici affermano che l’unico motivo per questa eccezione è lo stesso motivo per cui Netflix e Amazon ottengono condizioni speciali: Apple ne ha bisogno. Ha bisogno in particolare di app popolari finanziate dalla pubblicità. Apple ha bisogno di Instagram, Amazon, Uber e Google Maps, e per questo non chiede alcuna commissione per i proventi derivanti dalle pubblicità.

Ma il punto secondo i critici è che Apple adotta queste eccezioni a proprio vantaggio.

Nello stesso post, viene spiegato perché non ha senso dire “Se non ti piacciono le regole dell’App Store vai su altre piattaforme“. Nonostante la sua piccola quota di mercato del 13%, l’iPhone ha una leva economica che crea praticamente una dipendenza obbligatoria per ogni azienda IT che vende beni fisici o digitali. In pratica, Apple detiene le chiavi delle persone che spendono di più.

Trascorriamo il 50% di tempo in più al telefono che sul desktop. Gli utenti mobili trascorrono l’85% del loro tempo nelle app, contro il 15% sul Web. Gli utenti Apple spendono più di tre volte gli utenti Android.

La conclusione del post è che Apple ha, senza alcun dubbio, il monopolio. Monopolio che non è definito nella quota di mercato, ma nella quota di compartecipazione alle entrate. Si sostiene quindi che Apple non può avere entrambe le cose: da un lato afferma che tutte le app e gli sviluppatori sono trattati allo stesso modo, e dall’altra escogita una complessa serie di regole che consentono di concedere eccezioni quando Apple ha interesse a farlo.

Cosa ne pensate?

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