
Una nuova denuncia legale presentata dall’International Rights Advocates negli Stati Uniti accende di nuovo i riflettori su Apple. La ONG sostiene che la filiera di Apple continui a includere minerali provenienti da miniere legate a conflitti, sfruttamento minorile e lavoro forzato nella Repubblica Democratica del Congo e in Rwanda.
Secondo la causa, materiali come cobalto, stagno, tantalio e tungsteno sarebbero parte di supply chain che coinvolgono raffinatori accusati di gravi violazioni dei diritti umani.
Non si tratta di un episodio isolato. Nel 2024 la Repubblica Democratica del Congo aveva già denunciato Apple e le sue filiali in Europa per l’uso di minerali provenienti da zone di conflitto. Quell’azione penale fu depositata in Francia e Belgio. Apple aveva risposto dichiarando di aver ordinato ai propri fornitori di sospendere l’acquisto di minerali da Congo e Rwanda, citando la difficoltà nel garantire audit indipendenti nelle aree coinvolte dal conflitto.
Malgrado queste misure, l’ultima denuncia sostiene che le catene di approvvigionamento siano ancora contaminate da materiali “conflict linked”, con implicazioni molto gravi per le comunità locali.
Nel testo della causa, IRAdvocates chiede alla corte di dichiarare che le pratiche di Apple violano le leggi statunitensi a tutela del consumatore. L’organizzazione pretende anche che Apple interrompa ogni forma di marketing presentato come “etico e responsabile” qualora rimanga collegato all’uso di minerali da aree di conflitto.
Non si tratta per ora di una richiesta di risarcimento economico collettivo tramite class action, ma di un’ingiunzione che mira a imporre trasparenza reale e un cambio concreto nelle pratiche di acquisto di questi minerali.
Le regioni nel Congo orientale e in Rwanda sono da anni al centro di conflitti segnati da milizie, guerre per il controllo delle miniere, sfruttamento della popolazione locale e traffici illeciti di materie prime. Il fenomeno dei cosiddetti “minerali di sangue” (3TG: stagno, tantalio, tungsteno, più talvolta oro e cobalto) è tristemente noto.
Per aziende come Apple, che producono smartphone, computer e dispositivi elettronici, il problema è complesso: molte componenti richiedono questi materiali, e garantire una filiera “pulita” non è sempre semplice. Anche se la società dichiara che una parte significativa del cobalto usato nel 2024 era riciclata, gli attivisti sostengono che i metodi di conteggio consentono comunque mescolanze con minerali vergini provenienti da aree a rischio.
Il caso mette in evidenza quanto sia difficile per una multinazionale globale assicurare trasparenza e responsabilità reale, specialmente quando le supply chain attraversano territori instabili, con governance debole e conflitti armati.
Gli accusatori fanno riferimento a un report universitario recente che segnala violazioni di diritti umani in siti minerari legati a fornitori di Apple. L’azienda, da parte sua, ribadisce di avere un codice di condotta rigoroso per i fornitori, di aver sospeso acquisti da regioni a rischio e di effettuare audit. Nel 2024 aveva dichiarato di non avere “ragionevoli basi” per credere che raffinatori o fonderie nella sua supply chain finanziassero gruppi armati.
Ma la denuncia attuale mette in dubbio la reale efficacia di quelle misure: secondo IRAdvocates la supply chain sarebbe ancora compromessa e la certificazione o il riciclo non sarebbero sufficienti a escludere materiali contaminati.
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